Cassazione civile , sez. lavoro sentenza 15.01.2013 n° 807 (Rocchina Staiano)
Il principio di tassatività degli illeciti disciplinari non può essere inteso in senso rigoroso, al pari di quanto avviene per gli illeciti penali, ai sensi dell’art. 25, comma 2, Cost., dovendosi, invece, distinguere fra illeciti relativi alla violazione di prescrizioni strettamente inerenti all’organizzazione aziendale, per lo più ignote alla collettività e, quindi, conoscibili solo se espressamente previste nel codice disciplinare, da affliggere ai sensi dell’art. 7 dello Statuto, e comportamenti incompatibili con le fondamentali regole del vivere civile, o manifestamente contrari agli interessi dell’impresa o dei lavoratori o che implicano la violazione di doveri fondamentali che qualificano la prestazione di lavoro, nei quali casi il disvalore del comportamento del lavoratore, non solo è immediatamente percepibile dallo stesso, ma è sanzionabile in via diretta dalla legge, per determinare l’insorgere di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, senza necessità di alcuna forma di specifica e predeterminata forma di pubblicità.
E’ quanto ribadito dalla Sezione Lavoro della Cassazione con sentenza 15 gennaio 2013, n. 807 che riprende un indirizzo interpretativo consolidato della Suprema Corte.
Nella specie lo scontro verbale, avvenuto tra il lavoratore e il suo diretto superiore, che ha dato vita al licenziamento, appariva come una comprensibile, seppure censurabile, reazione del primo all’attività di provocazione posta in essere dalla direzione aziendale in suo danno ed in particolare dal predetto superiore.
Di conseguenza, è illegittimo il licenziamento intimato dalla società al dipendente, con qualifica di quadro, e per questo è stata condannata la società a reintegrarlo nel posto di lavoro ed a corrispondergli le retribuzioni globali di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegra, con gli accessori di legge; mentre, la Corte ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni proposta dal lavoratore.
Ciò si basa sul principio di necessaria proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, come la giurisprudenza della Suprema Corte abbia da tempo individuato l’inadempimento idoneo a giustificare il licenziamento in ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali (cfr. per tutte Cass. civ., n. 14551 del 2000; Cass. civ., n. 16260 del 2004), sicchè quel che è veramente decisivo, ai fini della valutazione della proporzionalità fra addebito e sanzione, è l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.
(Altalex, 14 febbraio 2013. Nota di Rocchina Staiano)