Licenziamento nullo se la contestazione disciplinare non è specifica

Dalla Cassazione un’autorevole conferma del suo magistero e un’occasione per ricapitolare principi e modelli operativi di comportamento in materia di contestazione disciplinare.

Avv. Prof. Stefano Lenghi – Con la sentenza n. 2648 del 10 febbraio 2016 (qui sotto allegata), la sezione lavoro della Suprema Corte di Cassazione, confermando la linea di pensiero già in precedenza espressa, ha stabilito che la contestazione dell’addebito deve rivestire il carattere della specificità, ancorché senza l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, purché siano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati, rispettando i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio, di talché il lavoratore possa articolare le sue difese nel modo più tempestivo e pregnante.

La vicenda

Un dipendente della Fiat Group Automobiles spa, con qualifica di Tecnical Zone Manager (TMZ) ed inquadramento nel sesto livello del CCNL metalmeccanici, adiva il Tribunale di Bologna con ricorso ex art.1, comma 48 e seguenti, della legge n.92/2012, per sentir dichiarare l’illegittimità del licenziamento intimato il 27 aprile 2012 in considerazione della genericità della contestazione disciplinare e dell’insussistenza dell’addebito e la conseguente reintegrazione nel posto di lavoro ex art.18 della legge 20 maggio 1970 n.300 (Statuto dei Lavoratori).

Con la lettera di contestazione si imputava al lavoratore di aver abusato del suo ruolo e della sua funzione per raggiungere, verosimilmente nel 2010, con i titolari di una s.n.c. un illecito accordo in pregiudizio della Fiat Group Automobiles spa, attraverso il quale aveva percepito indebiti importi per somme tra i cinquemila e gli ottomila euro, anche attraverso la dazione di merce ottenuta da costoro senza versamento del corrispettivo.

Con ordinanza del 09 gennaio 2013 il Tribunale di Bologna, riconoscendo la illegittimità della contestazione disciplinare perchè “priva degli elementi temporali di luogo, di persone ed oggetto idonei a circostanziare i fatti addebitati”, ordinava la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro.

Con ricorso ex art.1, comma 51, della legge n.92/2012 la società proponeva opposizione alla suddetta ordinanza, chiedendone la riforma ed il Tribunale di Bologna, con sentenza n.963/2013 accoglieva il ricorso in opposizione, revocando l’ordinanza del 09 gennaio 2013.

Contro la sentenza del Tribunale di Bologna proponeva reclamo il lavoratore, deducendo la nullità della sentenza per essere stata emessa dal medesimo giudicante persona fisica che aveva pronunziato l’ordinanza opposta, nonchè per violazione e falsa applicazione dell’art.7 della legge n.300/1970 in relazione alla illegittimità della contestazione dell’addebito per genericità e difetto di specificità.

Con sentenza depositata il 13 marzo 2014 la Corte d’Appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado n.963/2013, ritenendo generica la contestazione disciplinare, dichiarava illegittimo il licenziamento del lavoratore, condannando la Fiat Group Automobiles spa a corrispondergli le retribuzioni maturate dal licenziamento del 27 aprile 2012 sino al successivo licenziamento, detratto l’aliunde perceptum, oltre agli accessori di legge.

Ha, quindi, proposto ricorso la società per la cassazione della sentenza della Corte territoriale, affidato ad un unico motivo.

La tesi della società ricorrente

La società asserisce nel ricorso che la lettera di contestazione del 20 aprile 2012 era adeguatamente specifica, consentendo al lavoratore di difendersi compiutamente. In particolare, assumeva la società che, nell’ambito della lettera di contestazione, erano oggettivate, nei loro nuclei essenziali e strutturali: le condotte addebitate (aver raggiunto un illecito accordo contrario agli interessi economici e di immagine di Fiat Group Automobiles spa al fine di perseguire un personale indebito vantaggio; identificati i soggetti con cui tale accordo era intervenuto (i titolari della snc); descritto il contenuto dell’accordo stesso (l’utilizzo, da parte del lavoratore, del ruolo di Technical Zone Manager e degli accrediti personali sul sistema informatico che regola le garanzie in Fiat Group Automobiles spa al fine di creare a favore dell’Officina in questione le condizioni per ottenere liquidazioni di interventi a fronte di riparazioni asseritamente effettuate sulla base di garanzie manipolate ovvero utilizzando ricambi non originali); riportata l’entità dell’illecito vantaggio economico tratto dal dipendente (tra i cinquemila e gli ottomila euro oltre a dazione di merce senza versare il corrispettivo).

 Aggiunge, poi, la società ricorrente che la specificità dell’addebito, che riguardava l’esistenza dell’illecito accordo con i soggetti chiaramente individuati, attuato con le descritte modalità anche per quanto riguarda i codici utilizzati dal lavoratore (C01 ovvero C11) per permettere la consumazione della fattispecie illecita, con pregiudizio degli interessi aziendali, aveva del resto consentito al controricorrente di prendere posizione rispetto agli addebiti, negando in nuce l’esistenza dell’accordo e, dunque, il fatto materiale che costituiva l’essenza della contestazione disciplinare, negando altresì tutti gli ulteriori risvolti sopra riportati, che afferiscono, come detto, alle modalità attuative dell’illecito e al profitto tratto dal lavoratore infedele.

Sembra, insomma, voler dire la società, nel ricorso, che non si vede come possa essere tacciata di genericità o di mancanza di specificità una contestazione che ha ricostruito e descrive chiaramente il tipo di addebito, di cui si è reso responsabile il lavoratore, che identifica i soggetti coinvolti nella fattispecie posta in essere e che quantifica l’entità dell’illecito vantaggio economico tratto dal dipendente infedele.

La decisione della Suprema Corte

La Corte Suprema, che ha ritenuto il ricorso infondato, al fine di poter operare una valutazione in punto di diritto della contestazione disciplinare sottoposta a sua disamina, tiene, in via preliminare, a rammentare, quale criterio in base al quale formulare la valutazione stessa, che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la contestazione dell’addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l’immediata difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della connessa specificità, ancorché senza l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, purché siano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati, rispettando i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio (Cass.15 maggio 2014 n.10662; Cass.05 luglio 2013 n.16831; Cass.17 novembre 2010 n.23223; Cass. n.5115/2010).

Premesso il criterio alla luce del quale valutare la contestazione in discorso e calandosi nella considerazione della fattispecie di dettaglio, la Corte di legittimità osserva che la lettera di contestazione formulata dalla società individua, anche con precisione, un fatto teoricamente censurabile disciplinarmente, ma resta confinata in tale categoria teorica (esistenza di un accordo attraverso il quale il dipendente avrebbe tratto illeciti profitti), senza tuttavia indicare quali fossero in concreto i singoli fatti disciplinarmente rilevanti, effettivamente compiuti ed addebitati al lavoratore, che infatti non può ritenersi, come si accenna in ricorso, essersi compiutamente difeso attraverso la generica negazione dell’addebito.

Precisano, dunque, i supremi giudici che risulta condivisibile la sentenza della Corte d’Appello (la cui motivazione deve ritenersi congrua ed esente da vizi logici), che ha ritenuto che la contestazione, mentre, per un verso, chiaramente delineava la fattispecie illecita astratta di una truffa ai danni del datore di lavoro, mediante accordo con l’Officina della snc, il cui contenuto pure era stato specificato (creare in favore dell’Officina in questione le condizioni per poter ottenere la liquidazione di interventi su riparazioni effettuate su garanzie manipolate ovvero con ricambi non originali), per altro verso non precisava, nemmeno a titolo esemplificativo, gli episodi relativi alle procedure di garanzia asseritamente truccate e/o alle riparazioni effettuate con ricambi non originali, difettando quindi di qualsiasi elemento (ad es., il numero di procedura degli interventi in garanzia, il modello del veicolo, l’oggetto dell’intervento, etc.), necessario a concretizzare, dal punto di vista spaziale e temporale, gli illeciti di cui si riteneva responsabile il lavoratore, ciò che ha impedito, così, a quest’ultimo di difendersi adeguatamente.

Sulla base di tali assunti, la Corte Suprema ha respinto il ricorso proposto dalla società.

Riflessioni in merito alla linea interpretativa espressa

In relazione alle argomentazioni svolte dai giudici di appello e da quelli di legittimità diciamo subito che meritano senz’altro piena condivisione gli assunti sposati dalla decisione, che ci è piaciuto portare all’attenzione dei lettori.

E’ proprio, infatti, in relazione all’esigenza di tutelare il lavoratore sul piano del suo interesse a potersi difendere nel modo più completo, efficace e tempestivo nei confronti del datore addebitante, che l’art.7 della legge n.300/1970 ha imposto al datore di lavoro, prima ch’egli formalizzi l’adozione di un provvedimento punitivo, di effettuare al lavoratore una contestazione scritta degli addebiti stessi, in modo che il medesimo, acquisendo una conoscenza specifica e completa degli elementi che sono emersi a suo carico, possa rispondere al datore presentando le sue giustificazioni ed articolando le ragioni ch’egli ritiene di dover addurre a sua difesa. Ma vi è di più. Se è vero, come è vero, che l’obiettivo della norma è quello dianzi descritto, ci chiediamo: ma come può il lavoratore esprimere le sue difese nel modo più efficace e pregnante se non acquisisce immediatamente (per avere un ricordo fattuale quanto più fresco e fervido) una conoscenza analitica e dettagliata della condotta addebitatagli in termini di elementi costitutivi e di dinamica di svolgimento dei fatti, nonchè di circostanze di luogo, di tempo e di persone coinvolte nel comportamento imputatogli? Ed è proprio dalla ovvia risposta a questo interrogativo che il pensiero giurisprudenziale ha enucleato e teorizzato le condizioni di legittimità della contestazione disciplinare, disponendo che essa non dev’essere generica, non deve limitarsi a delineare e descrivere il tipo astratto di comportamento che il collaboratore risulta aver posto in essere, ma deve entrare, come già sottolineato dalla stessa sentenza, nella materialità dei fatti, nei particolari concreti e specifici di estrinsecazione della condotta ed analiticamente costitutivi della condotta stessa, ed affermando, altresì, che la contestazione non dev’essere tardiva, ma relativamente immediata, affinchè il lavoratore sia in grado di avere un ricordo fresco dei fatti e di poterli, così, ricostruire al meglio a sua difesa.

Orbene, dovendo valutare lo specifico caso oggetto di disamina alla luce dei surrichiamati principi, ci sembra proprio che i giudici di secondo grado e quelli supremi, come emerge da quanto riportato nella motivazione della sentenza, abbiano posto molto correttamente in risalto come la lettera di contestazione formulata dalla società datrice, non essendo entrata nei dettagli operativi del disegno fraudolento attuato dal collaboratore, non avendo connotato e precisato, nemmeno a titolo esemplificativo, i singoli episodi della condotta illecita nella materialità dei loro elementi identificativi e sul piano delle circostanze di tempo, di luogo e di nominativi delle persone coinvolte e non avendo, così, fornito gli elementi di prova specifica dell’accordo illecito, sia carente sul piano della richiamata esigenza di specificità e non abbia, pertanto, potuto consentire al dipendente di difendersi nel modo più completo ed efficace. Ad ulteriore eloquente comprova della genericità della contestazione basti, del resto, addurre la stessa espressione “verosimilmente nel 2010”, usata dalla Suprema Corte nel riassumere le vicende che hanno condotto alla presentazione del ricorso per cassazione, espressione acclarante del fatto che dalla lettera di contestazione, secondo il pensiero dei giudici, emerge incertezza persino sulla determinazione dell’anno in cui il dipendente avrebbe raggiunto l’illecito accordo in pregiudizio della società sua datrice di lavoro.

L’occasione per ricapitolare principi e indicazioni operative in tema di contestazione disciplinare

La sentenza, cui ci è piaciuto dedicare l’attenzione in questo nostro intervento, costituisce una importante occasione per ricapitolare principi ed indicazioni operative in materia di contestazione disciplinare, ed è ciò che vorremmo qui di seguito offrire al lettore.

Abbiamo visto che, dal combinato disposto del secondo e quinto comma dell’art.7 della legge n.300/1970, emerge che il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore se non siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto dell’addebito e se non lo abbia prima sentito a sua difesa.

Attraverso tali disposizioni il legislatore si è proposto di ricondurre l’esercizio del potere disciplinare al rispetto di principi di civiltà morale, ancor prima che di etica giuridica, disponendo che il datore di lavoro, prima di punire un suo collaboratore, cui venga imputata la violazione di uno dei suoi doveri di lavoratore, deve contestargli l’addebito, cioè comunicargli, imputargli i fatti emersi a suo carico, descrivendoli analiticamente, in modo che egli, ricostruendo i fatti stessi, abbia la possibilità di presentare in modo articolato le sue valutazioni e le sue discolpe. Insomma, correttezza, lealtà e buona fede esigono che il datore dica al lavoratore: caro collaboratore, è emerso che il tal giorno, alla tale ora, nel tal luogo tu abbia posto in essere il comportamento che ora ti ho analiticamente descritto in tutti i suoi elementi costitutivi. Ora passo la palla a te. Cosa mi dici a tua difesa? Fammi conoscere le giustificazioni che adduci, punto per punto, a tua discolpa, perchè io datore possa esprimerti, per ciascuna giustificazione, le mie valutazioni e motivare il provvedimento, che andrò eventualmente ad adottare.

Siamo, pertanto, in presenza di una norma, che è animata dallo spirito di consentire al lavoratore di poter esprimere nei confronti di parte datoriale una difesa quanto più efficace e pregnante. Si è chiesto, infatti, il legislatore: come può il lavoratore costruire una sua valida ed efficiente difesa, presentare le sue giustificazioni ed articolare le sue discolpe se prima non conosce in modo analitico e completo i fatti imputatigli e non dispone di qualche giorno per ricostruire gli stessi in modo preciso e completo in termini di tempo e di luogo, per raccogliere elementi di difesa, per sentire eventuali persone coinvolte nei fatti stessi? Di qui le richiamate disposizioni normative.

Da un’analisi dei dettati normativi condotta alla luce dei criteri che li ispirano e degli obiettivi ch’essi mirano a conseguire, nonchè tenendo conto del pensiero espresso sul tema della contestazione disciplinare dall’orientamento della magistratura del lavoro e, in particolare, dal magistero della Corte di legittimità, possiamo ricapitolare qui di seguito i principi e modelli di comportamento, cui i gestori aziendali dei rapporti di lavoro ed i professionisti che li assistono e difendono dovranno conformarsi nella loro quotidiana operatività ai fini di un esercizio giuridicamente corretto del potere disciplinare, quanto meno in relazione a tutto ciò che ruota intorno alla contestazione dell’addebito:

a) la lettera di contestazione dell’addebito deve contenere la descrizione analitica e completa dei fatti imputati al lavoratore, identificandoli nei loro elementi costitutivi e nella loro specifica dinamica di svolgimento, e dovrà, altresì, recare l’indicazione delle circostanze di tempo, di luogo e di persone che hanno caratterizzato il verificarsi dei fatti stessi (requisito della specificità della contestazione disciplinare).

Identificazione dell’addebito nei suoi elementi costitutivi e nella sua dinamica di svolgimento

Il comportamento del lavoratore dev’essere descritto nell’estrinsecarsi materiale e cronologico di tutte le sue singole modalità di azione od omissione, perchè solo se il contenuto della contestazione presenta questa completezza, analiticità e specificità di identificazione dei suoi elementi costitutivi, il lavoratore è in grado di ricostruire pienamente i fatti e di poter predisporre efficacemente le sue discolpe.

Ove, poi, nella descrizione dei fatti si facesse riferimento ad atti, contratti e/o documenti vari, questi dovranno essere identificati in modo preciso in modo da poter essere tutti individuati ed esaminati (ad es., documento di prestazione tecnica n. XZ05827 emesso il 27 settembre 2015 dall’Ufficio “Manutenzione e Controllo Tecnico Apparecchiature Elettromedicali” della Direzione Tecnica di Sede Centrale).

Indicazione delle circostanze di tempo

Indicare quando ha avuto luogo il comportamento imputato, tenendo presente che non basta precisare che il fatto si è verificato, ad., il giorno x, dovendo specificarsi che il fatto è stato posto in essere, ad es., alle ore 11,20 del giorno 23 marzo 2016. Se l’addebito si riferisse a più episodi, ciascuno caratterizzato da un proprio svolgimento nel tempo, ogni singolo episodio dovrà essere descritto e connotato in modo che i suoi elementi costitutivi possano essere fotografati ed identificati anche nel loro sviluppo cronologico.

Indicazione delle circostanze di luogo

Indicare in quale luogo o in quali luoghi si è verificato l’addebito imputato, tenendo presente che non basterebbe precisare, ad es., che il fatto ha avuto luogo presso lo Stabilimento aziendale di Piacenza, dovendo emergere dalla descrizione che il fatto è avvenuto, ad es., presso il Reparto Alfa del Compartimento “Controllo Strutture di Base” dello Stabilimento di Piacenza alle ore 11,20 del 23 marzo 2016.

Se l’addebito si riferisse a più episodi, ciascuno caratterizzato da azioni svolgentisi in luoghi diversi, ogni singolo episodio dovrà essere descritto e connotato in modo che i suoi elementi costitutivi possano essere identificati anche sotto il profilo del mutamento dei luoghi, che dovrà risultare chiaramente.

Indicazione delle circostanze di persone

Indicare alla presenza di quali persone si è verificato il fatto addebitato o, comunque, quali persone risultano coinvolte nel fatto stesso, identificate, esse, per nome, cognome e posizione aziendale, e descrivendo le azioni ed i comportamenti di ciascuna di esse in relazione al ruolo e all’incidenza che hanno avuto sul censurato comportamento del lavoratore.

b) la lettera di contestazione deve, altresì, far presente al lavoratore che egli ha cinque giorni di tempo, decorrenti dal giorno di ricevimento della lettera stessa, per presentare le sue giustificazioni e che, se vuole, potrà farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale, cui aderisce o conferisce mandato.

Il suddetto termine di cinque giorni è stato accordato dalla legge al lavoratore per preparare le sue discolpe (termine a difesa) ed al datore di lavoro per poter riflettere sull’entità del provvedimento disciplinare che andrà a formalizzare e, addirittura, in certi casi, sull’opportunità di attivare una reazione datoriale sanzionatoria. Dovendo, comunque, ritenersi che il lavoratore possa predisporre quanto più efficacemente le sue giustificazioni soltanto quando si trova in azienda per rendere la prestazione (in relazione alla necessità di dover sentire colleghi di lavoro e consultare documenti per poter ricostruire al meglio il fatto addebitatogli), ci sembra consigliabile, nonostante il pensiero giurisprudenziale continui ad avallare pienamente il computo dei cinque giorni in termini di giorni di calendario, che il datore debba ritenere valide le giustificazioni, anche se pervenute entro cinque giorni computati in termini di giorni di effettivo lavoro per il collaboratore interessato (non computando, ad es., nei cinque giorni il sabato o la domenica, se non fossero giornate lavorative per il lavoratore inquisito).

Non vi è obbligo, per il lavoratore, di presentare giustificazioni scritte; il lavoratore ha piena facoltà di scegliere se esporre le proprie controdeduzioni in forma orale ovvero in forma scritta. Ove, però, il lavoratore opti per fornire le sue giustificazioni verbalmente, dovrà avanzarne espressa richiesta al datore di lavoro entro il surrichiamato termine di cinque giorni.
Illegittima
e, come tale, causa di radicale illegittimità della sanzione poi eventualmente comminata, sarebbe la pretesa del datore di lavoro di avere solo controdeduzioni scritte, rifiutandosi di convocare apposito incontro, nel caso in cui il lavoratore avesse chiesto di difendersi in forma orale.
Entro il termine dei cinque giorni il lavoratore, anche se abbia già presentato le sue giustificazioni, può produrre al datore, per iscritto o verbalmente, eventuali integrazioni alle stesse.
Il datore di lavoro non può procedere all’adozione del provvedimento prima che siano trascorsi i termini a difesa del lavoratore, anche se il lavoratore avesse già presentato le sue giustificazioni.

Ribadiamo tutta la portata di tale principio, posto a tutela del diritto del lavoratore di utilizzare tutto il termine riconosciutogli dal legislatore per poter esprimere quanto più efficacemente le sue difese, nonchè posto a tutela dell’interesse generale a che anche il datore di lavoro utilizzi tutto il lasso di tempo concessogli dalla norma per riflettere e ponderare in merito al provvedimento da adottare. Invitiamo, pertanto, i datori di lavoro a non adottare, in ogni caso, alcun provvedimento disciplinare prima che sia interamente trascorso il termine in questione, anche se il lavoratore avesse inviato giustificazioni esaustive molto prima del decorso del termine stesso.

Ciò anche se, su questa materia, è stato espresso un orientamento di segno opposto proprio in seno alla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con sentenza 26 aprile 1994 n.3965, ribadito con la sentenza Cass., Sez. Lav., 07 maggio 2003 n.6900 e con la sentenza Cass., Sez. Lav., 09 febbraio 2012 n.1884. In particolare, le Sezioni Unite hanno affermato che il provvedimento disciplinare può essere legittimamente adottato anche prima della scadenza del termine in questione, allorchè il lavoratore abbia già esercitato pienamente il proprio diritto di difesa, facendo pervenire al datore le proprie giustificazioni, senza manifestare alcuna esplicita riserva di ulteriori produzioni documentali o motivazioni difensive, ed abbia, cioè, presentato giustificazioni da doversi considerare, per la loro esaustività, non suscettibili di eventuali integrazioni da parte dello stesso lavoratore. Allo stesso tempo le Sezioni Unite hanno ritenuto sussistente il diritto del lavoratore di esplicitare la riserva a fornire, sempre nel rispetto del termine a difesa di cinque giorni, ulteriori giustificazioni.
In omaggio a tale linea di pensiero del Supremo Consesso, sarebbe, dunque, opportuno che il lavoratore, che intenda meglio precisare le proprie difese, magari dopo essersi consultato con i rappresentanti sindacali, esplicitamente comunichi per iscritto al datore di riservarsi ulteriori controdeduzioni e che, in presenza di tale esplicita richiesta, il datore di lavoro, a maggior ragione, attenda il decorso dei cinque giorni, sapendo che, in difetto, la eventuale sanzione potrà essere ritenuta radicalmente illegittima.

A prescindere, comunque, dal fatto che il giudicato della Corte di Cassazione a Sezioni Unite non può essere ignorato, costituendo un precedente di massima autorevolezza, e che è stato, per di più, confermato, dalla successiva richiamata giurisprudenza di legittimità, ribadiamo il nostro invito ai datori ad adottare, in ogni caso, i provvedimenti disciplinari dopo il completo decorso del termine in questione. Riteniamo, infatti, che non valga proprio la pena, per l’azienda, essere coinvolta in un contenzioso giudiziario (con tutte le conseguenze che ciò comporta!), che potrebbe proprio essere evitato, solo che indugiasse qualche giorno in più nella formalizzazione del provvedimento….

Il lavoratore, che non si avvale del diritto alla difesa, non vede in ogni caso pregiudicato il diritto ad impugnare il provvedimento disciplinare.

Il lavoratore, infatti, è libero, se vuole, di non presentare alcuna giustificazione, fermo restando che tale comportamento potrà essere, poi, oggetto di valutazione da parte datoriale in sede di stesura del provvedimento sanzionatorio.

Precisiamo che, ove il lavoratore lo richieda (e soltanto ove il lavoratore lo richieda nel termine di cinque giorni dal ricevimento della lettera di contestazione dell’addebito), il datore è tenuto a convocare e sentire oralmente il lavoratore, anche nel caso in cui quest’ultimo abbia già fatto pervenire al datore le sue giustificazioni per iscritto, non incombendo sul datore un autonomo dovere di convocazione del dipendente per l’audizione orale, ma solo un obbligo correlato alla manifestazione tempestiva, cioè entro i suddetti cinque giorni, della volontà del lavoratore di essere sentito di persona, così come confermato anche da un pensiero giurisprudenziale univoco (vedi, ex plurimis, Cass. 22/3/2010 n. 6845, Pres. Roselli, Est. Amoroso, in Orient. giur. lav. 2010, 507, secondo cui “il datore di lavoro, che intenda adottare una sanzione disciplinare nei confronti del dipendente, non può omettere l’audizione del lavoratore incolpato che ne abbia fatto espressa ed inequivocabile richiesta contestualmente alla comunicazione – nel termine di cui all’art. 7, 5° comma, l. 20 maggio 1970 n. 300 – di giustificazioni scritte, anche se queste appaiano già di per sè ampie ed esaustive”).

Rammentiamo anche che, secondo Trib. Milano 23/4/2008, Est. Porcelli (in Lav. nella giur. 2008, 1284), il datore di lavoro è obbligato a dare seguito alle richieste del lavoratore di essere sentito personalmente e di ottenere copia di tutta la documentazione su cui si fondano le contestazioni solo allorquando le stesse rispondano ad effettive esigenze di difesa non altrimenti tutelabili e non quando invece esse appaiono dettate da fini meramente dilatori o siano avanzate in modo equivoco, generico, o non motivato, spettando comunque al giudice di merito stabilire se, nella singola fattispecie, si sia o meno verificata una concreta violazione del diritto di difesa dell’incolpato, e che, secondo Trib. Bergamo 29/10/2007, Est. Trosi (in D&L 2008, 982), nell’ambito del procedimento disciplinare, il lavoratore che presenti giustificazioni, ma intenda anche essere ascoltato a difesa ai sensi dell’art. 7, comma 2°, legge n.300/1970, ha l’onere di comunicare detta volontà in termini univoci a tutela dell’affidamento del datore di lavoro e quest’ultimo ha l’onere di formalizzare le modalità di audizione in termini chiari ed inequivocabili; conseguentemente, è affetta da nullità la sanzione disciplinare comminata allorché il datore di lavoro si limiti a dichiarare genericamente la propria disponibilità all’audizione del lavoratore, senza indicare un giorno e un’ora, nei quali tale audizione possa avvenire.

In ordine alla audizione orale del lavoratore, alla quale, a nostro parere, sarebbe opportuno che assistesse un testimone, se si può affermare che essa non richiede particolari formalità, concordiamo, però, con la giurisprudenza di legittimità nel ritenere che la redazione di un verbale analitico dell’incontro può essere senz’altro utile per il datore di lavoro (a parere di chi scrive indispensabile, soprattutto nel caso in cui il lavoratore chieda al datore di poter presentare le sue giustificazioni solo verbalmente e ne rappresentiamo, pertanto, la necessità ai responsabili aziendali delle risorse umane, che ci leggono), onde acquisire, ai fini della prova, un documento (sottoscritto da ambedue le parti, dal testimone di parte datoriale e da quello di parte sindacale), che attesti il corretto svolgimento dell’incontro e verbalizzi il pensiero espresso dal datore unitamente alle giustificazioni, ai rilievi e alle valutazioni formulate dal lavoratore in relazione ai fatti contestati (così, ad es., anche Cass., Sez.Lav., 20 gennaio 1998 n.476, in Mass. Giur. Lav.1998, Suppl.29). Aggiungiamo soltanto che, in base al richiamato giudicato, il lavoratore, in tale fase del procedimento disciplinare, non può farsi assistere da un avvocato, bensì soltanto da un rappresentante sindacale (interpretazione che ci sembra, invero, assai corretta, perchè in armonia con la lettera e con lo spirito del sistema normativo, che tende a privilegiare (e, nel caso della procedura disciplinare, addirittura testualmente prescrive) l’intervento dei rappresentanti sindacali per assistere o difendere un lavoratore in un contenzioso, sino a quando esso presenta natura stragiudiziale);

c) la lettera di contestazione dell’addebito non deve sostanziarsi in una comunicazione di tenore accusatorio, con la quale il datore mostri di considerare già sussistente la colpevolezza del lavoratore, imputandogli la responsabilità per una determinata inosservanza dei suoi doveri. Se così fosse, ci sarebbe da chiedersi per quali ragioni il legislatore ha accordato al lavoratore, in omaggio a principi di civiltà morale e giuridica, la possibilità di difendersi nel modo quanto più efficace.

La lettera di contestazione deve, pertanto, semplicemente limitarsi a comunicare e descrivere al lavoratore, il più asetticamente possibile, quali fatti, quali comportamenti risulta che egli abbia obiettivamente posto in essere (rilevanza fattuale della lettera di contestazione dell’addebito), e non deve riportare alcun giudizio o valutazione di colpevolezza (così come il linguaggio usato non dovrà mai assumere un tono accusatorio), ma, premessa la asettica descrizione dell’addebito come frutto delle risultanze obiettivamente emerse, deve invitare il lavoratore a fornire riscontro alla contestazione, formulando le sue valutazioni, esprimendo le sue tesi ed adducendo le sue giustificazioni e le sue discolpe in modo articolato, in chiave di risposta punto per punto a ciò che gli è stato imputato;

d) un ulteriore requisito di legittimità della contestazione disciplinare, che dottrina e giurisprudenza, sin dall’entrata in vigore del plesso normativo statutario, hanno concordemente ritenuto implicitamente prescritto dal legislatore, è quello secondo cui la contestazione dell’addebito disciplinare dev’essere effettuata immediatamente dopo il verificarsi dei fatti addebitati, così come, del resto, anche l’adozione-formalizzazione del provvedimento deve aver luogo subito dopo il decorso dei cinque giorni da quando il lavoratore ha ricevuto la lettera di contestazione stessa (requisito della immediatezza).

Ciò in quanto il datore che, pur avendo raccolto tutti gli elementi di prova per poter effettuare la contestazione, indugia senza apprezzabile motivo nel darvi corso:

1) soprattutto rende più difficoltoso al lavoratore l’esercizio del diritto di difesa, in quanto, maggiore è il lasso di tempo trascorso tra il comportamento del lavoratore e l’inizio dell’azione disciplinare, minore e meno vivo è, per il lavoratore, il ricordo della dinamica di svolgimento dei fatti e, conseguentemente, più difficile la precisa ricostruzione dell’addebito in tutti i suoi elementi costitutivi e meno efficace la difesa che il lavoratore potrà andare ad opporre;

2) può indurre nel lavoratore il falso convincimento di una volontà datoriale intesa a rinunziare all’esercizio dello jus puniendi;

3) potrebbe perseguire lo scopo di indurre il lavoratore a reiterare il comportamento censurato, per poi poter adottare una sanzione più grave;

4) potrebbe perseguire finalità intimidatorie, tenendo il lavoratore in uno stato di incertezza, “sotto tiro”.

Diciamo subito, però, che il principio dell’immediatezza, come il pensiero dottrinale e quello giurisprudenziale continuano a ribadire, va inteso in senso relativo, potendo benissimo intercorrere anche un rilevante intervallo temporale tra il verificarsi dell’addebito e l’esercizio del potere disciplinare, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti da addebitare richieda effettivamente uno spazio temporale maggiore, dovendo il lasso di tempo essere valutato in relazione al tempo necessario, al datore, per ricostruire l’addebito in tutti i suoi elementi costitutivi e nella sua dinamica di svolgimento e per raccogliere tutti gli elementi di prova, onde imputarne la riferibilità al lavoratore, così come un considerevole lasso di tempo potrebbe giustificarsi anche in relazione alla complessità della struttura organizzativa dell’impresa, che, per le molteplici implicazioni dei rapporti interfunzionali, potrebbe essere, di per sè, fonte di ritardi nel pervenire all’adozione del provvedimento (si esamini, in particolare, la pregevole sentenza Cass., Sez. Civ.Lav., 04 febbraio 2015 n.2021 ed i precedenti in essa richiamati).

Giustamente, pertanto, è stato dalla sentenza Cass. n.2021/2015 affermato che “la regola dell’immediatezza rappresenta in ultima analisi un corollario del principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (articolo 1375 c.c.) ed un criterio di verifica dell’uso non distorto del potere disciplinare rispetto alle finalita’ per le quali esso e’ stato attribuito al datore di lavoro (cfr. Cass. n. 13167 del 2009; Cass. n. 20719 del 2013)”.

Non dimentichiamo, infine, che il requisito del principio dell’immediatezza scaturisce, altresì, anche se limitatamente al caso del recesso datoriale in tronco, di cui all’art.2119 c.c., dallo stesso concetto di giusta causa.

Ribadiamo che anche il provvedimento di adozione-formalizzazione del provvedimento disciplinare dovrà essere assunto dal datore subito dopo il decorso dei cinque giorni da quando il lavoratore ha ricevuto la lettera di contestazione dell’addebito (ovverosia entro due o tre giorni al massimo). D’altra parte, di fronte ad un datore che indugiasse oltremodo nell’esercizio dello jus puniendi, ci sarebbe, infatti, da chiedersi quale interesse possa sussistere in capo al medesimo ad azionare un provvedimento che ha lo scopo, attraverso la comminatoria della sanzione, di riaffermare, nei confronti di tutta la collettività aziendale, la validità ed effettività delle regole di organizzazione….Un datore che, pur potendo adottare un provvedimento disciplinare, persista nell’indugio, mostra, in fondo, di non aver interesse a sanzionare e di ritenere che il comportamento posto in essere dal lavoratore non sia più di tanto pregiudizievole per l’organizzazione aziendale….

Annotiamo che il datore di lavoro non può procedere ad effettuare alcuna indagine preliminare nei confronti del lavoratore prima che sia stata formalmente effettuata la contestazione dell’addebito al medesimo.
Sul punto occorre, tuttavia, precisare che sono state ritenute legittime brevi indagini preliminari volte all’esclusivo fine di consentire al datore di lavoro di acquisire gli elementi necessari per assumere la decisione di attivare la procedura, e ciò purché dette indagini preliminari non si trasformino in una anticipata procedura sommaria;

e) nel caso in cui il comportamento da imputare al lavoratore sia tale da condurre al recesso datoriale per giusta causa, al fine di rendere compatibile l’applicazione dell’art.2119 c.c. (che consente di licenziare con effetto immediato il lavoratore subito dopo il verificarsi del fatto) con l’art.7, secondo e quinto comma, della legge n.300/1970 (che obbliga il datore, subito dopo il verificarsi del fatto, ad effettuare la contestazione dell’addebito prima di licenziare), si ricorre, com’è noto, a questo escamotage giuridico, che è la regola che viene ormai consuetudinariamente osservata sul piano operativo.

Precisamente, con la stessa lettera di contestazione il datore, dopo aver descritto l’addebito ed aver invitato il lavoratore a presentare le sue discolpe, comunica contestualmente al medesimo l’adozione del provvedimento di immediata sospensione dal lavoro in via cautelativa, fermo restando il diritto del lavoratore alla corresponsione del normale trattamento retributivo sino alla data di ricevimento del provvedimento, che la Direzione andrà ad adottare (“Le comunichiamo la Sua immediata sospensione dalla prestazione in via cautelativa, fermo restando il Suo diritto alla corresponsione del normale trattamento retributivo sino alla data in cui Lei avrà ricevuto la comunicazione del provvedimento, che questa Direzione sarà andata ad adottare nei Suoi confronti”);

f) in tale paragrafo ci occupiamo dell’ipotesi in cui non sia possibile avviare il procedimento disciplinare ed effettuare la contestazione dell’addebito, non potendo il lavoratore difendersi efficacemente in quanto privato della libertà personale da un provvedimento della magistratura.

Dobbiamo considerare tre diverse situazioni, che vanno affrontate adottando diversi modelli di comportamento sul piano operativo:

f1) prima opzione:

caso del lavoratore che subisca, da parte dell’Autorità giudiziaria, un provvedimento di restrizione della libertà personale da considerarsi come temporaneo (ad es., custodia cautelare in carcere, custodia cautelare in luogo di cura, arresti domiciliari, ecc.) per aver posto in essere un comportamento censurabile anche sul piano disciplinare aziendale: è chiaro che, non potendo il lavoratore difendersi efficacemente, non avrebbe senso e non sarebbe, quindi, ipotizzabile inviargli la lettera di contestazione in carcere o nel luogo di ricovero/cura.

In tal caso, data l’obiettiva impossibilità, per il lavoratore, di rendere la prestazione e proseguire il rapporto di lavoro, al datore di lavoro non resta che, come previsto spesso anche dalla contrattazione collettiva, considerare temporaneamente sospeso il rapporto di lavoro ovverosia sospese le obbligazioni oggetto del rapporto stesso (fondamentalmente, la prestazione e la controprestazione retributiva, con tutto ciò che ne consegue). Tale provvedimento di sospensione del dipendente dal lavoro e dalla retribuzione non ha, ovviamente, natura di sanzione disciplinare, bensì di provvedimento attestante l’impossibilità temporanea della prosecuzione del rapporto di lavoro per “factum principis”, ossia per provvedimento coattivo della pubblica Autorità). La sospensione del rapporto resterà in vigore sino alla data in cui cesserà la restrizione della libertà personale o il ricovero del lavoratore, dopodiché il prestatore dovrà riprendere il lavoro (la mancata ripresa del lavoro senza una motivazione normativamente prevista costituirebbe assenza ingiustificata) e, versando il medesimo finalmente nelle condizioni di potersi discolpare, il datore potrà avviare nei suo confronti il procedimento disciplinare, a cominciare dall’effettuazione della contestazione dell’addebito.

Non appena, pertanto, il lavoratore riacquistasse, anche temporaneamente, la libertà personale e potesse predisporre le sue discolpe in modo efficace, il datore di lavoro, ove ritenga di disporre già di tutti gli elementi pienamente comprovanti, sul piano giuslavoristico, che il comportamento del dipendente ha irrimediabilmente ed irreversibilmente compromesso il rapporto fiduciario, potrebbe benissimo, ancor prima dell’esito del processo penale, avviare autonomamente la procedura disciplinare, contestando l’addebito, attendendo le giustificazioni del lavoratore, indi adottando, se del caso, il licenziamento per giusta causa, che il lavoratore potrebbe, poi, impugnare avanti al giudice del lavoro. Il giudice del lavoro, poi, non sarà, a sua volta, obbligato a sospendere il procedimento avanti a lui eventualmente instaurato dal dipendente in attesa della sentenza della magistratura penale, difettando una delle condizioni previste dall’art.295 c.p.c. e non avendo la sentenza penale, che risolve una questione civile, penale o amministrativa, efficacia vincolante in nessun altro processo (art.2, secondo comma, c.p.p.), anche se il giudice del lavoro finisce spesso per esercitare, di sua iniziativa, la facoltà di sospendere la causa di lavoro in attesa della sentenza definitoria del processo penale. In sostanza, la sfera giuslavoristica e quella penalistica seguono due vie pienamente autonome. Il giudice del lavoro, infatti, è chiamato a valutare il fatto addebitato alla luce dei doveri del lavoratore nei confronti del datore e dell’eventuale compromissione del rapporto fiduciario tra i due intercorrente ed emetterà una sentenza che ha effetto soltanto sul rapporto di lavoro (e senza alcun crisma di valenza penalistica!), mentre il giudice penale, esulando completamente dalla sua competenza la sfera dei rapporti di lavoro, è chiamato unicamente a stabilire se il comportamento del dipendente sia riconducibile nel paradigma di una fattispecie prevista dalla legge come reato, al fine di infliggere o meno la pena che la legge stessa prevede a carico di tutti i consociati, il cui comportamento sia riconducibile nella stessa fattispecie criminosa, indipendentemente dal fatto che siano titolari o meno di un rapporto di lavoro.

Senza voler proporre al datore mutamenti di modello di comportamento, peraltro legittimi in relazione all’ipotesi che andiamo ora a prospettare, desideriamo rilevare che, anche nel caso, di cui al presente paragrafo, è stato sostenuto, da autorevole precedente della giurisprudenza di legittimità, che, data la cessazione del segreto istruttorio per effetto del termine delle indagini preliminari e la conseguente possibilità, per l’imputato, di venire a conoscenza degli atti d’indagine compiuti sul proprio conto e di poter, quindi, produrre le proprie discolpe, il datore, che ritenga di poter ricostruire i fatti in tutta la loro specificità e di essere in possesso di tutti gli elementi comprovanti l’imputabilità degli stessi al dipendente, ben potrebbe, dopo la cessazione delle indagini preliminari, avviare il procedimento disciplinare (si veda, in proposito, Cass., Sez. Lav., 20 giugno 2014 n.14103, Pres. Miani Canevari Rel. Buffa, in Lav. nella giur. 2014, 1128: “in tema di procedimento disciplinare, ai fini dell’accertamento della sussistenza del requisito della tempestività della contestazione, in caso di intervenuta sospensione cautelare di un lavoratore sottoposto a procedimento penale, la contestazione disciplinare ed il licenziamento per i relativi fatti ben possono essere differiti dal datore di lavoro in relazione alla pendenza del procedimento penale stesso, anche in ragione del rispetto del segreto istruttorio”).

Quanto sopra ferma restando, comunque, ove l’azione penale dovesse proseguire, la facoltà, per il datore, di attendere l’esito del processo penale per valutare l’opportunità di avviare la procedura disciplinare, a condizione che di ciò sia data espressa comunicazione al lavoratore;

f2) seconda opzione:

caso in cui, per la particolare gravità dei reati contestati e per la complessità delle indagini avviate dalla magistratura, sia da presumersi, a carico del lavoratore, una carcerazione continuativa e di lunga durata (anche per la probabile condanna nel procedimento penale senza possibilità di sospensione condizionale della pena), ed il provvedimento di restrizione della libertà personale sia stato adottato a fronte di un comportamento del lavoratore, che, oltre ad interessare l’Autorità giudiziaria per il fatto di presentare rilevanza penalistica, costituisse, altresì, violazione dei doveri da lui contrattualmente assunti nei confronti del datore.

In tale ipotesi, non avendo il lavoratore alcuna possibilità di difendersi efficacemente in quanto stabilmente detenuto, il datore dovrà tener fermo il provvedimento di sospensione del rapporto di lavoro sino al passaggio in giudicato della sentenza penale di definizione del giudizio. Dopodiché, in relazione all’esito del giudizio penale, il datore potrà valutare se avviare o meno il procedimento disciplinare nei confronti del lavoratore o procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Ed anche un po’ tutto l’orientamento della giurisprudenza di legittimità è concorde nel ribadire che anche il lunghissimo lasso di tempo tra il verificarsi dei fatti addebitati e la pronunzia del giudicato penale da parte della magistratura (spesso svariati anni!) non può essere valutato alla luce di un’eventuale violazione del principio di immediatezza della contestazione, dovendosi il rapporto accusa/difesa svolgersi necessariamente all’interno della sfera giudiziaria penale e potendo l’azienda valutare definitivamente contestazioni e discolpe soltanto attraverso e dopo la conclusione dell’operato della magistratura penale, ciò che comporta che il datore debba attendere quel giudicato penale, che gli conferirà il criterio di valutazione dei fatti-comportamenti da porre a base dell’azione disciplinare da promuovere nei confronti del lavoratore.

In relazione, poi, a quanto osservato nella parte finale del precedente paragrafo f1), ci sia consentito nutrire forti riserve circa la fondatezza giuridica (che da parte di qualcuno pur si pretende di sostenere) di un eventuale avvio, da parte datoriale, del procedimento disciplinare al termine delle indagini preliminari nei confronti di un lavoratore che continua ad essere privato della sua libertà personale, non essendo certo pensabile che possa esprimere al suo datore efficaci discolpe un lavoratore che, pur potendo venire a conoscenza, attraverso il suo avvocato difensore, degli atti d’indagine compiuti nei suoi confronti durante l’istruttoria preliminare, versi in istato di detenzione;

f3) terza opzione.

nel caso, però, in cui la restrizione della libertà personale, per la gravità dei reati contestati e la complessità delle indagini, sia presumibilmente destinata a protrarsi indefinitamente (come nel caso di cui al paragrafo f2), indipendentemente dal fatto che la detenzione sia stata disposta per comportamenti che possano costituire o meno anche violazione dei doveri del lavoratore nei confronti del datore, poichè ciò che diventa, in fondo, determinante, per l’azienda, a prescindere dalla responsabilità del lavoratore, è la prospettiva aziendale di non poter più utilizzare proficuamente la sua prestazione, il datore sarà anche indotto a considerare la fattispecie non più alla luce della colpevolezza del prestatore, ma in relazione alla possibilità di risolvere il rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo.

In tale ottica il datore si sentirà anche, più precisamente, chiamato a valutare se l’incidenza negativa del protrarsi dell’assenza, in relazione alla posizione ricoperta dal lavoratore, alle funzioni e alle responsabilità a lui assegnate, alla produttività aziendale, alla durata della carcerazione ed ai presumibili tempi di svolgimento del processo penale, sia riconducibile nell’ambito di una di quelle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa costituenti giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ai sensi dell’art.3 della legge 15 luglio 1966 n.604 e successive integrazioni e modificazioni, e, in caso di risposta affermativa, a procedere al licenziamento per la richiamata causale oggettiva (spesso in materia interviene anche la contrattazione collettiva).

Diciamo subito, però, che tale terza opzione non è scevra da rischi dopo l’intervento del legislatore nel 1995.

Il datore di lavoro deve, infatti, ricordare che, ai sensi dell’art.102-bis (quale introdotto dall’art.24 della legge 08 agosto 1995 n.332) del D.Lgs.28 luglio 1989 n.271-Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (reintegrazione nel posto di lavoro perduto per ingiusta detenzione), “Chiunque sia stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ai sensi dell’articolo 285 del codice ovvero a quella degli arresti domiciliari ai sensi dell’articolo 284 del codice e sia stato per ciò stesso licenziato dal posto di lavoro che occupava prima dell’applicazione della misura, ha diritto di essere reintegrato nel posto di lavoro medesimo, qualora venga pronunciata in suo favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero venga disposto provvedimento di archiviazione”.

E’ bene, pertanto, che il datore sia consapevole che, ove dalla lettera di licenziamento del dipendente per giustificato motivo obiettivo dovesse risultare che la risoluzione del rapporto di lavoro era da ricollegarsi al fatto che, per effetto dell’assenza del lavoratore imputabile al provvedimento di custodia cautelare o di arresti domiciliari, il datore non aveva più interesse ad utilizzare la sua prestazione (così è stata interpretata dalla Corte di legittimità la dianzi citata norma!), il lavoratore assolto nel processo penale avrebbe diritto ad essere riammesso in servizio presso l’azienda che lo aveva licenziato per giustificato motivo obiettivo, sia pur con l’instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro.

Rebus sic stantibus, posto che il licenziamento per giustificato motivo obiettivo apparirebbe, nella specie, per forza di cose imputabile all’inutilizzabilità della prestazione causata dall’assenza coattiva imposta con il provvedimento restrittivo della libertà personale, è chiaro che il datore di lavoro potrebbe avere interesse a praticare questa via del licenziamento per giustificato motivo oggettivo da adottare prima della sentenza definitoria del processo penale, solo se, in base agli elementi emersi durante le indagini preliminari, dovesse apparire certa o, comunque, altamente probabile la condanna penale del lavoratore indagato, ben consapevole, il datore stesso, che, nel caso di eventuale assoluzione del lavoratore nel processo penale, si esporrebbe al rischio che il medesimo possa invocare la surrichiamata norma per ottenere la riassunzione in azienda. L’opportunità, per il datore, di praticare la via che conduce al licenziamento per giustificato motivo obiettivo è, pertanto, rimessa, giova risottolinearlo, alla formulazione di un giudizio di elevata probabilità di condanna del lavoratore nel processo penale, giudizio cui il datore potrà fondamentalmente pervenire attraverso un’approfondita disamina del materiale probatorio emerso durante le indagini preliminari. La questione sarebbe, invero, meritevole di approfondimenti, ma la linea operativa da adottare ci sembra, essere, invero, quella or ora esposta;

g) nell’esercizio del potere disciplinare il datore di lavoro deve operare nel rispetto del c.d. principio della immutabilità della contestazione, noto anche come principio di “cristallizzazione dei motivi di licenziamento“, in base al quale, a salvaguardia e garanzia del diritto di difesa del lavoratore, il datore di lavoro, nella lettera di adozione del provvedimento disciplinare, non può addurre fatti diversi da quelli contestati, così come non può aggiungere nuovi addebiti. Ciò in quanto, su fatti diversi da quelli contestati o su nuovi addebiti prima non contestati il lavoratore non avrebbe diritto di replica, diritto di replica la cui apposita sede è, comunque, unicamente quella delle giustificazioni da presentare a parte datoriale entro cinque giorni dal ricevimento della lettera di contestazione (requisito della immutabilità della contestazione).

In altri termini, il diritto di difesa e di replica il lavoratore deve poterlo esercitare nella fase antecedente a quella di adozione-formalizzazione del provvedimento, vale a dire in relazione ai fatti che il datore gli imputa con la lettera di contestazione, dopodiché, una volta adottato- formalizzato il provvedimento, tutto il prosieguo del procedimento disciplinare, compresa la eventuale fase contenziosa (avanti al Collegio Provinciale di Conciliazione ed Arbitrato o avanti alla magistratura del lavoro), sarà imperniato esclusivamente sul contenuto della lettera di contestazione;

h) la lettera di contestazione dell’addebito dev’essere firmata dal legale rappresentante dell’impresa datrice o da persona, cui sia stata conferita dal legale rappresentante dell’azienda, con espressa procura-delega notarile, la responsabilità della gestione dei rapporti di lavoro subordinato in ogni suo aspetto e, in particolare, la titolarità del diritto di esercizio del potere disciplinare;

i) la contestazione dell’addebito potrà essere inviata al lavoratore nella forma della lettera-raccomandata con avviso di ricevimento. La spedizione in detta forma può, però, spesso suscitare al datore incertezze in relazione alla data in cui il lavoratore abbia ricevuto la raccomandata. Si dà, persino, il caso del lavoratore, che dia atto di aver ricevuto la raccomandata, assumendo, però, che, aperta la busta, essa era priva di contenuto.

Al fine, comunque, di evitare l’insorgere di problemi del tipo di quelli surrichiamati, si suggerisce, sempreché il lavoratore sia presente sul lavoro (e non sia, quindi, assente per malattia o altra ragione), di convocare il medesimo in direzione aziendale e di consegnargli brevi manu in due copie la lettera di contestazione.

In tal caso il datore farà datare e firmare al lavoratore una dichiarazione in calce ad una delle due copie della lettera di contestazione, con cui egli attesta e conferma di aver ricevuto e preso visione, in quel determinato giorno, della lettera di contestazione dell’addebito disciplinare (Testo della dichiarazione: ad es.,”Per avvenuto ricevimento e presa visione del contenuto della presente”, data e, sotto la data, firma del lavoratore). In caso di rifiuto, da parte del lavoratore, a prendere in consegna la lettera in questione, si redigerà apposito verbale alla presenza anche di un altro rappresentante della direzione aziendale e di un rappresentante sindacale, sottoscritto da tutti i presenti, in cui si prende atto del rifiuto del lavoratore di prendere in consegna e visionare la lettera e si fa presente che, per effetto di ciò, la lettera stessa gli verrà spedita al suo domicilio nella forma della raccomandata con avviso di ricevimento. Ove il lavoratore rifiuti di sottoscrivere il verbale, si dà atto di tale rifiuto nel verbale stesso.

Rammentiamo, comunque, che, secondo il codice civile, l’atto consegnato per il tramite del servizio postale si presume conosciuto dal destinatario quando giunga all’indirizzo riportato sulla busta e sul modello postale (che, nel nostro caso, dev’essere il recapito comunicato dal lavoratore al datore come suo normale domicilio), indipendentemente dalla data in cui il destinatario ne abbia poi preso effettivamente conoscenza.

La eventuale raccomandata si considera, pertanto, validamente consegnata al lavoratore anche quando il postino lasci avviso al destinatario eventualmente assente e non quando il lavoratore assente abbia materialmente ritirato la lettera-raccomandata presso l’Ufficio Postale.
Analogamente, e per le stesse ragioni, nessun effetto può assumere l’eventuale rifiuto del lavoratore a ritirare la raccomandata. Poichè, infatti, la raccomandata è, comunque, pervenuta al domicilio del destinatario, essa si presume e considera, a tutti gli effetti, consegnata, ancorché rifiutata.

Nel caso in cui si debba procedere con la spedizione della lettera stessa mediante Ufficio Postale, non possiamo, comunque, non rappresentare l’opportunità che un incaricato del datore di lavoro segua, tramite l’Ufficio Postale, l’iter di spedizione e consegna della lettera al lavoratore, al fine di acquisire certezze circa l’avvenuto ritiro della lettera stessa da parte del destinatario e la relativa data;

l) se il lavoratore, pur invitato nella lettera di contestazione, non ha prodotto le proprie giustificazioni, il datore, nel formalizzare la lettera di adozione del provvedimento, potrà o meno tener conto di tale fatto. Se il lavoratore ha inviato le sue giustificazioni, il datore dovrà motivare il proprio provvedimento sanzionatorio, precisando analiticamente, per ciascuna giustificazione, le ragioni per le quali abbia ritenuto di poterla o meno accogliere. La lettera di adozione del provvedimento dovrà, pertanto, far seguito alla lettera di contestazione dell’addebito ed alla lettera di giustificazioni del lavoratore e, dopo aver valutato analiticamente, punto per punto, ogni singola giustificazione, dovrà, soppesati i pro ed i contra contenuti nelle discolpe, indicare i motivi che il datore pone a fondamento della sua decisione, anche sul piano del rispetto del principio di proporzionalità tra gravità dei fatti ed entità della eventuale sanzione.

Ci è piaciuto, insomma, offrire ai lettori e, soprattutto, a coloro che sono coinvolti nella quotidiana gestione dei rapporti di lavoro (responsabili delle risorse umane e professionisti dell’ambito giuslavoristico), un compendio di principi e di linee operative, nella speranza che possa essere veramente di ausilio nel fornire loro modelli di comportamento idonei a garantire azioni giuridicamente corrette nell’esercizio del potere disciplinare.

A conclusione di questo nostro intervento desideriamo, infine, rammentare che, in materia, per così dire, di diritto disciplinare aziendale, abbiamo già avuto occasione di appuntare in precedenza la nostra attenzione, e con specifico riferimento alla tematica dell’onere datoriale di affissione della normativa disciplinare in luogo accessibile a tutti quale prima condizione, a monte, per l’esercizio del potere disciplinare, prevista dall’art.7, primo comma, della legge 20 maggio 1970 n.300. Per una maggiore completezza di panoramica suggeriamo, pertanto, la rilettura anche di questo nostro precedente articolo sullo specifico richiamato argomento (leggi: “Sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione: illegittima, per la Cassazione, se violato l’onere di affissione del codice disciplinare“). 

Fonte: Licenziamento nullo se la contestazione disciplinare non è specifica
(www.StudioCataldi.it)

http://www.studiocataldi.it/articoli/22036-licenziamento-nullo-se-la-contestazione-disciplinare-non-e-specifica.asp

Share this post