Corte di Giustizia UE , sez. III, sentenza 15.10.2014 n° C-221/13
L’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, concluso il 6 giugno 1997, che figura nell’allegato alla direttiva 97/81/CE del Consiglio, del 15 dicembre 1997, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES, ed in particolare la sua clausola 5, punto 2, deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale in base alla quale il datore di lavoro può disporre la trasformazione di un contratto di lavoro da contratto a tempo parziale in contratto a tempo pieno senza il consenso del lavoratore interessato.
Cosi’ si è espressa la CGUE sulla questione pregiudiziale sollevata nell’ambito di un procedimento instaurato da un’impiegata a tempo parziale nei confronti del suo datore di lavoro, il Ministero di Giustizia, che, in forza dell’articolo 16 della Legge n. 183/2010, ha unilateralmente posto fine al regime di lavoro a tempo parziale accordatole, imponendole un tempo pieno.
Occorre precisare che la norma invocata dal Ministero prevede che le amministrazioni pubbliche possano, entro centottanta giorni dalla sua entrata in vigore, sottoporre a nuova valutazione i provvedimenti di concessione della trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale già adottati.
La ricorrente, nell’opporsi a tale trasformazione, sosteneva invece che, grazie al regime di lavoro a tempo parziale, aveva potuto destinare il proprio tempo libero alla sua famiglia e alla sua formazione professionale: aspetti che, per la ricorrente, sono tutelati dalla direttiva europea 97/81, che sancirebbe un vero e proprio principio secondo il quale il lavoratore non può vedere trasformato il suo contratto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno contro la propria volontà.
Per il giudice del rinvio, inoltre, l’art. 16, L. 183/2010 in esame contrasterebbe con la previsione di cui alla clausola 5, punto 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale (recepito dalla direttiva 97/81), ai sensi della quale “[i]l rifiuto di un lavoratore di essere trasferito da un lavoro a tempo pieno ad uno a tempo parziale, o viceversa, non dovrebbe, in quanto tale, costituire motivo valido per il licenziamento, senza pregiudizio per la possibilità di procedere (…) a licenziamenti per altre ragioni, come quelle che possono risultare da necessità di funzionamento dello stabilimento considerato”, previsione che sembrerebbe richiedere il consenso del lavoratore quando la modifica del contratto di lavoro sia voluta dal datore di lavoro.
Per la CGUE, tuttavia, tale clausola è volta unicamente ad escludere che l’opposizione di un lavoratore a una simile trasformazione del proprio contratto di lavoro possa costituire l’unico motivo del suo licenziamento, in assenza di altre ragioni obiettive.
Peraltro, occorre per la Corte considerare che “una situazione in cui un contratto di lavoro a tempo parziale è trasformato in un contratto di lavoro a tempo pieno senza l’accordo del lavoratore interessato e una situazione in cui un lavoratore vede il suo contratto di lavoro a tempo pieno trasformato in un contratto di lavoro a tempo parziale contro la sua volontà non possono essere considerate situazioni comparabili, dato che la riduzione del tempo di lavoro non comporta le stesse conseguenze del suo aumento, in particolare a livello di remunerazione del lavoratore, che rappresenta la contropartita della prestazione di lavoro”.
Ne consegue, in conclusione, che la normativa europea non osta a una normativa nazionale che consente al datore di lavoro di disporre la trasformazione del contratto di lavoro da contratto a tempo parziale in contratto a tempo pieno senza il consenso del lavoratore interessato.
Fonte: Rete forense ANAI
Qui la sentenza: Sentenza 15 ottobre 2014 causa C-221-13