Cassazione civile , sez. lavoro, sentenza 13.09.2012 n° 15353 (Carmelo Minnella)
Nella sentenza 13 settembre 2012, n. 15353, la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ha espresso un importante principio di diritto: «Il giudice adito per la dichiarazione di illegittimità di un licenziamento disciplinare irrogato in conseguenza di un comportamento, l’avere rivolto ai datori di lavoro epiteti offensivi, per il quale è stato poi sottoposto a procedimento penale per ingiuria, in seguito a querela delle persone offese costituitesi parti civili nel processo penale, non può, in considerazione dell’identità del fatto materiale, rispettivamente vagliato in sede penale quale ingiuria e in sede civile quale condotta che ha determinato il licenziamento, considerare ininfluente la sentenza dibattimentale penale di assoluzione conclusiva del suindicato procedimento penale divenuta cosa giudicata e le prove ritualmente raccolte in sede penale, ai fini della valutazione della condotta del lavoratore e della prova della giusta causa del licenziamento, a maggior ragione quando in sede penale il comportamento addebitato al lavoratore-imputato sia stata ritenuto non punibile perché provocato da “una condotta mobbizzante” del datore di lavoro».
Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda un lavoratore fatto oggetto di ben dieci sanzioni disciplinari conservative, quindi licenziato per aver rivolto parole offensive al datore di lavoro. Il lavoratore aveva subito un processo penale per ingiuria dal quale era stato “assolto perché il fatto non costituisce reato”. Infatti, il giudice penale aveva ritenuto sussistere l’esimente della provocazione (prevista dall’art. 599, c. 2, c.p. quando l’ingiuria è stata commessa “nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo lo stesso”), in quanto il lavoratore era stato sottoposto a mobbing nel luogo di lavoro.
In sede civile, la Corte di Appello di Ancona, aveva rigettato il ricorso del lavoratore volto a sentir dichiarare l’illegittimità del licenziamento inflitto allo stesso lavoratore.
Di diverso avviso la Cassazione, sezione lavoro, che ha accolto il ricorso del lavoratore in ordine alla falsa applicazione dell’art. 654 c.p.p., a norma del quale “la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che erano già stati oggetto del giudizio penale, purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa”.
Nella specie, nel giudizio civile si controverte del diritto del lavoratore a non vedersi irrogare una sanzione disciplinare il cui riconoscimento dipende dall’accertamento del clima di vessazione e dal contesto mobbizzante, che sono gli stessi fatti materiali che hanno portato alla sentenza penale passata in giudicato di assoluzione del lavoratore dal reato di ingiurie.
Il ragionamento della Cassazione lavoro, nella pronuncia n. 15353/12, parte dalla premessa che «nella sentenza impugnata – sia per la ricostruzione del fatto sia per la valutazione del materiale probatorio e, in particolare, della prova testimoniale – non si è considerato che il principio secondo cui l’esimente della provocazione di cui all‘art. 599, ultimo comma, c.p. esclude la punibilità dei reati di ingiuria e di diffamazione, ma non anche la natura di illecito civile del fatto (Cass. n. 23366/2004) – dovendo il giudice civile procedere in modo autonomo alla rivalutazione del fatto e del materiale probatorio deve essere pur sempre applicato tenendo conto del contesto generale in cui si inserisce».
Tale contesto è connotato dal canone dell’innegabilità dell’efficacia in sede civile del giudicato penale di assoluzione pronunciato in sede dibattimentale ove i fatti oggetto del giudizio penale siano sovrapponibili a quelli oggetto del processo civile e vi sia coincidenza delle parti tra il giudizio penale e quello civile (Cass. n. 4962/2010), nonché dal principio secondo cui le prove ritualmente raccolte in un giudizio penale, che abbiano una qualche rilevanza per il successivo giudizio civile, non possono essere ignorate dal giudice civile il quale, nella sua autonomia, deve tenerne conto, confrontandole con gli elementi probatori emersi nel giudizio civile e dando conto delle scelte operate al riguardo (Cass. n. 22200/2010).
Nella specie, la stessa Corte d’appello riconosce l’identità del fatto materiale – rispettivamente vagliato in sede penale come ingiuria e in sede civile come condotta che ha determinato il licenziamento – pertanto, certamente si pone in contrasto con i principi su riportati la decisione della Corte stessa di considerare ininfluente la suddetta sentenza penale ai fini della valutazione della condotta del lavoratore e della prova della giusta causa del licenziamento, tanto più perché adottata dopo aver riferito che in sede penale il comportamento addebitato al lavoratore è stata ritenuto non punibile perché provocato da “una condotta mobbizzante” del datore di lavoro. Per gli ermellini «ne consegue, l’estrema gravità e rilevanza (anche ai fini del presente giudizio) del suddetto comportamento datoriale, che invece la Corte territoriale ha del tutto ignorato, benché esso fosse stato considerato in sede penale come l’elemento determinante della pronuncia assolutoria».
La suddetta erronea impostazione ha portato la Suprema Corte ad annullare la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Bologna.
(Altalex, 15 ottobre 2012. Nota di Carmelo Minnella)