Parlando di Bioetica ai colleghi se ne percepisce una cera “lontananza” dalla nostra professione.
La disciplina viene vista “accessoria” se non di “ostacolo” all’attività clinica.
Siamo portati a “fare” e poco a “pensare come fare” ; ma fermiamoci giustamente a pensare e riflettiamo in che modo “facciamo” le cose.
Un luogo comune recita che la “quantità è nemica della qualità”, e da una particolare angolazione trovo del vero in questa affermazione, poiché ciò che è corretto (nel modo e nei tempi) è eticamente accettabile.
Ma la domanda da porsi è come la Bioetica impatta sulla qualità delle cure. L’epoca in cui viviamo ci pone quotidianamente davanti ad interrogativi etici (anche se non li identifichiamo come tali), la molteplicità degli approcci terapeutici ed il mantenimento di un elevato standard di qualità di vita pongono il professionista sanitario a “scegliere ” il bene del paziente tra diverse e molteplici “offerte”.
Tali scelte (più delle volte ritenute banali dagli stessi operatori) costituiscono la base della Bioetica Clinica (ossia quella praticata a letto del paziente).
La Bioetica intreccia l’evidenza scientifica e la deontologia professionale ma prevede sempre un elevato “contributo” umano per poter essere esercitata.
Poiché i principi Bioetici devo essere interiorizzati del professionista e non solo applicati. La Bioetica si pone a supporto delle professioni sanitarie e non le ostacola o limita (come molti asseriscono).
In tal senso il “fare” non è più importante del “come fare”, ed è proprio il “modo di fare” che identifica e distingue un professionista.
Francesco Paolucci, Ufficio Stampa APSILEF.