Se l’intervento non è salvavita ciò che vale è il consenso espresso dal paziente. Basandosi su questo principio il Tribunale di Termini Imerese ha condannato, dopo il risultato della perizia che ha accertato il non pericolo di vita, un medico dell’ospedale locale per violenza privata per aver eseguito tre trasfusioni di sangue nel giro di poche ore nonostante la volontà contraria chiaramente espressa dalla paziente, testimone di Geova, nel consenso informato.
Aprile 2018 – Se non si tratta di un intervento davvero salavavita, ciò che vale è il consenso – o il non consenso – a una terapia espresso dal paziente a cui il medico non può opporsi nei fatti decidendo altrimenti.
Basandosi su questo principio il Tribunale di Termini Imerese, con sentenza del giudice monocratico Sabina Raimondo – il dispositivo della sentenza sarà depositta entro 60 giorni – ha condannato un medico dell’ospedale locale per violenza privata per aver eseguito tre trasfusioni di sangue nel giro di poche ore nonostante la volontà contraria chiaramente espressa dalla paziente, testimone di Geova, nel consenso informato. Altri tre medici, che avevano partecipato in vari momenti all’intervento, sono stati assolti.
Il medico, primario di chirurgia dell’ospedale, è stato condannato a un mese di reclusione con i benefici della condizionale e della non menzione e dovrà pagare alla paziente una provvisionale di 10 mila euro e altri 5 mila euro per spese di giudizio. Il primario è stato assolto dall’accusa di aborto colposo: la trasfusione era stata decisa dopo che la paziente aveva perso il feto ma per cause naturali.
Nel 2010 la donna, che all’epoca aveva 25 anni, era stata ricoverata all’ospedale Cimino per una minaccia di aborto. Dopo un primo esame, che si era concluso positivamente, era ritornata per nuove complicazioni. Stavolta i medici hanno accertato che il feto non aveva alcuna vitalità e hanno deciso di asportarlo. Ma la paziente ha negato l’autorizzazione a ogni trasfusione che sarebbe stata contraria ai principi del suo credo religioso. Ritenendo che ci fosse un pericolo anche per lei, il primario ha deciso di fare ugualmente la trasfusione e ne ha informato anche la Procura.
Le motivazioni della sentenza
Una perizia medica ha confermato la sofferenza della donna ma ha escluso che versasse in pericolo di vita o si trovasse comunque in condizioni tali da essere salvata con una trasfusione.
Secondo gli avvocati della donna e del marito, Marcello Rifici e Lucio Marsella, costituitisi parte civile nel processo, “il rifiuto della paziente andava rispettato non solo perché il trattamento medico non era strettamente necessario ma soprattutto perché si trattava di un rifiuto di persona adulta e capace”.
Il primario era imputato, insieme a due altri chirurghi, anche per l’aborto del feto che si sarebbe verificato dopo due interventi: il primo per rimuovere la colecisti e il secondo per bloccare un’emorragia per la lesione di un vaso sanguigno. Da questo reato tutti e tre sono stati assolti.
La trasfusione alla donna – secondo i medici – era necessaria: la paziente aveva un valore troppo basso dell’emoglobina. La perizia disposta dal tribunale di Termini Imerese ha messo in evidenza due fatti processualmente rilevanti: l’aborto non sarebbe stato causato dai due interventi subiti dalla paziente e dai dati clinici e di laboratorio non è emerso il “pericolo di vita”. Ciò significa che la richiesta della paziente poteva essere accolta e le trasfusioni non erano strettamente necessarie.
Al dibattimento il pm Luisa Vittoria Campanile ha chiesto la condanna del primario a un mese di reclusione: la pena che poi il giudice ha stabilito con la sentenza. Il processo è stato seguito dalla comunità dei testimoni di Geova secondo la quale la decisione del giudice «è in armonia con il diritto nazionale e internazionale».